Da molto tempo mi pongo una domanda, forse retorica: ma veramente noi italiani ci meritiamo il patrimonio culturale, storico e archeologico che i nostri benedetti (e inconsci) antenati ci hanno lasciato? Me lo chiedo non solo quando mi rendo conto dell’abbandono di siti, della pochezza e disorganizzazione dei musei, del cronico sottodimensionamento di personale e risorse nelle soprintendenze e nei luoghi di cultura, del traffico clandestino di opere d’arte, ma anche molto spesso a seguito dei comportamenti e degli atti dei nostri politici, che ricordiamo sono stati eletti da noi, il popolo italiano.
Ultima perla di questa “collana di delizie” è l’emendamento presentato alla manovra di bilancio 2019 da parte di alcuni parlamentari di un partito della coalizione di governo. Emendamento che non è stato approvato, come altre migliaia che riguardano principalmente interessi di parte, o che vogliono essere forse solo la prova che “in commissione si lavora!”.
È comunque chiaro che, seppur non approvato, l’emendamento sia un sintomo di un certo clima che non promette nulla di buono.
Veniamo al dunque. La proposta consisteva nella possibilità, per i gestori di attività extralberghiere, agriturismi e cantine vitivinicole, di fare accordi con “istituti e luoghi di cultura”, al fine di “valorizzare attraverso una opportuna custodia beni storici e archeologici” di interesse per l’area territoriale, e che “risultano catalogati e inventariati ma non direttamente accessibili al pubblico”. In pratica questo consentirebbe a privati di creare degli antiquari locali “fai da te”, con l’unica autorizzazione di enti quali musei, aree archeologiche, biblioteche, archivi (vedi DL 42/2004, art. 101).
E questo era il comma 1 dell’emendamento. Purtroppo compariva anche un comma 2, che, sempre a fini di valorizzazione, recitava: “gli imprenditori agricoli esercenti attività agrituristica in aree di particolare pregio culturale, possono promuovere attività di ricerca archeologica e di scavo sui terreni di cui risultano essere proprietari o gestori”. Tutto ciò, mediante concessione da rilasciare da parte del Ministero (soprintendenze). Ma non finisce qui, e la comica scivola nel grottesco; l’imprenditore “agricolo”, può far partecipare agli scavi i propri ospiti, sotto la supervisione del direttore dei lavori indicato nella concessione (laureato? Archeologo? Funzionario?).
È il caso di notare che gli onorevoli deputati hanno bellamente ignorato (o forse ne erano all’oscuro) le numerose circolari, pur molto restrittive e farraginose, emesse sull’argomento dal MIBAC dopo il 2004, e in particolare una circolare del 2016 che vieta espressamente la partecipazione a scavi archeologici, di soggetti diversi da archeologi provvisti di laurea o studenti universitari in disclipline archeologiche o affini; ma forse si voleva intendere che gli agriturismi provvisti di concessione ospitassero solamente turisti archeologi…
Si potrebbe anche dedurre (non per pensar male, sia ben chiaro) che questa operazione “dilettantesca” sia la diretta conseguenza dell’accorpamento di agricoltura e turismo in un unico ministero a cui, guarda caso, appartengono anche i firmatari dell’emendamento, proposto in barba a qualsiasi rispetto per le leggi italiane, per il Codice del Beni Culturali e per il nostro bistrattato patrimonio.
Per una maggiore e ben più titolata informazione, si rimanda all’intervento di Giuliano Volpe, ex presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, pubblicato su Archeologia Viva (rif. http://www.archeologiaviva.it/11166/indiana-jones-in-agriturismo ).